sabato 12 marzo 2022

Orgiva #74

 E in alcuni giorni questo pueblo era il più miserabile di tutta l’Alpujarra e mi faceva sentire così, un poveraccio, con tutti i suoi tossici, scoppiati, accattoni ed emarginati, con i suoi mendicanti, i suoi spacciatori e i suoi approfittatori, che più ti sorridevano e più te lo avrebbero messo nel culo senza troppi problemi appena ti fossi girato. Questo ritrovo di derelitti, sognatori falliti e mediocri visionari.  E c’erano siringhe per terra e volti deformi lungo i muri e poi i rintocchi della campana a battere il tempo della nostra caduta e tutte le ore passate fra i vicoli e fra lenzuola sudate, i giorni in cui ho vagato o mi sono rifugiato nella mia testa a cancellare le voci di chi mi infastidiva, voci che ancora mi dicevano cosa fare, chi essere, come comportarmi - Ne avevo le palle piene di tutto questo, ero venuto qui per nascondermi, per scrivere, per dimenticare e niente, le persone ancora mi rompevano i coglioni, volevo starmene nell’ombra, osservare, meditare, leggere libri, starmene tranquillo, ad attendere, a immaginare, a oziare, lasciando che le giornate svanissero così come erano venute e veramente non avevo più voglia di quello che avevo e avevo avuto intorno per gran parte della mia esistenza, non avevo più voglia di rapporti superficiali, di responsabilità che non mi spettavano, del gioco delle parti, delle chiacchiere inutili, non avevo voglia di lavorare, di capire, di soddisfare, di riparare, di progettare.

Poi guardavo il fianco della montagna al tramonto e lo vedevo respirare e muoversi in composizioni astratte di colori pulsanti e l’occhio lunare, di notte, mi osservava divertito mentre camminavo completamente nudo sulla terrazza. Le mattine erano di nuovo luce e respiri, la quiete e la pace interiore. Poi uscivo e  per le vie cominciava il solito teatro quotidiano, un misto di improvvisazione e repliche, atti unici e drammi, satire e commedie e io cercavo di rendermi invisibile, le volte in cui mi pesava parlare, ascoltare, addirittura incrociare lo sguardo con qualcuno che conoscessi, allora mi sedevo da qualche parte isolata e mi osservavo le mani, le mie fragili dita di cartapesta, che un giorno si sarebbero spezzate nell’angoscia di resistere alle cose. E poi ogni fuga che ho mascherato di speranza, come una splendida poesia per l’ultima aurora in cui fossi vissuto. Non avevo coraggio, non ne avevo mai avuto, eppure non mi sono mai tirato indietro davanti a questo osceno spettacolo che mi ha accolto da quando sono nato. Dimentichiamo il presente anche se è tutto quello che abbiamo, tutto quello che possediamo e poi ridiamo, si, una risata e un’altra e un’altra ancora, un’ebbrezza etilica splendente fra le estasi di una danza dionisiaca e poi il momento in cui ogni cosa non sarà più la stessa e nei ricordi di questo mondo non ci saranno più rancori e del tuo nome nemmeno un’eco e te ne andrai e nessuno ti seguirà e le campane suoneranno per la tua vita sprecata e per quell’attimo di meraviglioso silenzio per il quale hai rifiutato di voltarti indietro e di andare avanti, ora, adesso e in nessun momento.


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