lunedì 22 febbraio 2016

homesick #29

Alcune volte bisognava arrivare alla sera cercando di non impazzire, le ore lì dentro, al chiuso, senza aria, le pareti rosa e i flash di luce bianca, le loro bocche che parlavano o cercavano di emettere suoni senza significato, era dura, ma anche divertente, quando ti lasciavi andare e ridevi con loro, ma non poteva durare, era una messinscena di dementi, c’era il rischio di far cadere la ragione da qualche parte e lasciarcela, perché bisognava saltarci dentro a quelle teste e vedere cosa c’era e in molte occasioni non ci trovavo nulla, nulla a cui potessi aggrapparmi per uno scambio, un dialogo, ci parlavamo con gli occhi, con i gesti, con gli sguardi e per me andava pure bene ma poi fuori c’erano altre persone, altri lupi, altri ghigni e i miei ragazzi se li sarebbero divorati, tra le strade, nei luoghi di lavoro e due parole per difendersi e dire come la pensavano se le dovevano pure imparare e io dovevo trovare il modo per insegnargliele, ma in alcuni giorni c’avevi i cazzi tuoi in testa, magari la voglia di startene con le palle in mano a massaggiartele e non c’avevi voglia di vedere quelle facce, ogni mattina erano lì, la dovevano imparare sta lingua e tu eri stato assunto per questo, ma le prospettive finivano sempre per ridursi, quei muri finivano per uccidere qualsiasi fantasia, mi sentivo stanco, senza energie, non c’avevo nulla da dargli, era una teatro, una farsa, ci stavano facendo uscire fuori di testa, ce la ridevamo anche forte alcune mattine, che c’avevi ancora i postumi del vino o dell’hashish, la testa era leggera, ci ridevi con loro e loro ridevano con te, però sempre alla sera bisognava arrivare, poi i giorni diventavano tutti uguali, l’attesa della notte per essere libero, quei muri dovevano crollare, non mi restava altro che iniziare a prenderli a picconate.


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