venerdì 26 febbraio 2016

homesick #30

Le giornate di inverno passavano veloci, con la loro luce e i tramonti, se c’era il sole uscivo dall’ufficio verso l’ora di pranzo e facevo delle passeggiate, senza nessuna direzione, come in una lunga e anarchica riflessione spirituale, se non aveva nessuna importanza dove saremmo arrivati allo stesso modo non ne aveva alcuna la strada che avremmo scelto. 

Le pareti nude dei palazzi, senza finestre, superfici verticali di pura vernice, gialli fuggiti da qualche quadro di Van Gogh o De Chirico, i miserabili che strisciavano lungo l’asfalto, spingendo le loro carrozzine sventrate, dove mettevano tutto quello che trovavano dentro i cassonetti, erano in fila, uno dietro l’altro, una processione medievale di maschere sporche e invecchiate, le linee impresse nella pelle, scavate nel legno del viso, la mano di qualche divinità aveva modellato espressioni di disperazione e demenza sui quei volti, loro passavano, gli sguardi bassi, gli occhi che si illuminavano dentro i cassonetti, oggetti abbandonati, scacciati dalla vita di qualcuno, diventavano improvvisamente oro, le mani che afferravano, tiravano fuori, scartavano, posavano e ammucchiavano e ancora lungo le strade, nuovi codici e alfabeti da imparare, i segni lanciati da altri occhi, l’intesa, rispondere a quegli sguardi, oppure tirare dritto, non c’era bisogno di parole, anche perché i bisogni da soddisfare erano noti a tutti, quindi non c’era troppo da girarci  intorno, era un nuovo modo di vivere, di percepire le cose, di precipitare, lasciarsi andare, cadere e oltrepassare il limite, un nuovo modo di sentire, di vedere le emozioni starsene buone, innocue, il fumo delle sigarette nei polmoni, come una nebbia interiore, pesante e bianca, che nasconde i sentimenti, li tiene in disparte e loro non vengono più a cercarti, a ferirti, stati d’animo d’inverno, luminosi e oscuri, letargici e lenti. 

Me ne stavo in bilico sul presente, un filo teso tra lo splendore del giorno e l’arrivo della notte, non c’era nessun luogo dove andare, camminare in equilibrio, senza guardare in basso, tra le bugie delle stelle e quelle dei tuoi occhi. 


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