C’era
un piccolo fast-food dove vendevano le solite merdate che mangiavano gli inglesi,
vicino all’ostello dove dormivo a Londra e quando tornavo di notte, ubriaco e
affamato, mi fermavo lì, a divorare un
hamburger con patatine. C’erano alcuni arabi che preparavano i panini e il
luogo era asettico e anonimo ma loro erano molto gentili e mi servivano sempre
anche quando stavano per chiudere, poi me ne andavo all’ostello, scendevo al
bar e continuavo a bere birra, sidro o cocktail, poi mi sdraiavo su un
materassino fino a quando gli occhi non mi si chiudevano.
Credo
di non aver parlato con nessuno in quei giorni, mi limitavo a osservare gli
altri, passavano, venivano, ragazzi di tutto il mondo, non me ne fregava
niente, tornavo nella stanza da dieci persone, il sibilo dell’aria condizionata,
il caldo, mi buttavo sul letto, mi addormentavo, sognavo, vivevo in altri
luoghi, mi svegliavo, mi riaddormentavo, strani incontri, bizzarri personaggi.
Poi di nuovo fuori, per le strade, a vagare, i musei, le architetture che si
trasformavano in premonizioni e geometrie mentali e un senso di desolazione, in
alcuni momenti e la solitudine e i ricordi e il sonno, quando mi sentivo stanco
e cercavo un posto dove riposarmi, una panchina, ancora, dove stendermi, la
luce tra le nuvole, le visioni di un vagabondo, la stanza buia di un cinema, le
poltrone accoglienti.
I
volti deformi all’interno di una galleria, le linee come gabbie intorno ai loro
corpi, i colori scuri, inquietanti, torbidi, le stanze in cui non vorresti mai
trovarti, le forme di un incubo che cola dalle tele, le urla mute, gli sguardi
che creano prigioni, le deviazioni psichiche possibili solo all’interno di un
mondo di desolazione e astinenza.
Dietro
le tende, nascoste, le creature ghignano e strisciano lungo le pareti, una mano
che scuote la spalla curva di un vecchio, il sorriso senza denti che brilla nel
buio, le mosche che si posano su un cadavere di cenere.
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