martedì 13 settembre 2016

London/Francis Bacon



C’era un piccolo fast-food dove vendevano le solite merdate che mangiavano gli inglesi, vicino all’ostello dove dormivo a Londra e quando tornavo di notte, ubriaco e affamato,  mi fermavo lì, a divorare un hamburger con patatine. C’erano alcuni arabi che preparavano i panini e il luogo era asettico e anonimo ma loro erano molto gentili e mi servivano sempre anche quando stavano per chiudere, poi me ne andavo all’ostello, scendevo al bar e continuavo a bere birra, sidro o cocktail, poi mi sdraiavo su un materassino fino a quando gli occhi non mi si chiudevano.
Credo di non aver parlato con nessuno in quei giorni, mi limitavo a osservare gli altri, passavano, venivano, ragazzi di tutto il mondo, non me ne fregava niente, tornavo nella stanza da dieci persone, il sibilo dell’aria condizionata, il caldo, mi buttavo sul letto, mi addormentavo, sognavo, vivevo in altri luoghi, mi svegliavo, mi riaddormentavo, strani incontri, bizzarri personaggi. Poi di nuovo fuori, per le strade, a vagare, i musei, le architetture che si trasformavano in premonizioni e geometrie mentali e un senso di desolazione, in alcuni momenti e la solitudine e i ricordi e il sonno, quando mi sentivo stanco e cercavo un posto dove riposarmi, una panchina, ancora, dove stendermi, la luce tra le nuvole, le visioni di un vagabondo, la stanza buia di un cinema, le poltrone accoglienti.
I volti deformi all’interno di una galleria, le linee come gabbie intorno ai loro corpi, i colori scuri, inquietanti, torbidi, le stanze in cui non vorresti mai trovarti, le forme di un incubo che cola dalle tele, le urla mute, gli sguardi che creano prigioni, le deviazioni psichiche possibili solo all’interno di un mondo di desolazione e astinenza.
Dietro le tende, nascoste, le creature ghignano e strisciano lungo le pareti, una mano che scuote la spalla curva di un vecchio, il sorriso senza denti che brilla nel buio, le mosche che si posano su un cadavere di cenere.

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