Vivevo in una baracca,
al lato dei binari della ferrovia, un pezzo di terra nascosta dagli alberi, che
la separavano dalla strada. Ci arrivavo scendendo per un piccolo sentiero,
c’era un buco nella rete metallica e io ci passavo attraverso. La baracca
l’avevo trovata, abbandonata, i resti delle vite di altri miserabili, prima di
me. L’avevo sistemata alla meglio, ormai erano quasi tre mesi che ci abitavo.
Ogni cosa era arrangiata, costruita senza nessuna competenza, improvvisata,
instabile. Assi di legno, cartoni, teli di plastica. Il giorno giravo per le
vie lucenti di una città, spingendo il mio carrello, fermandomi davanti ai
cassonetti della spazzatura, cercando al loro interno qualcosa che mi potesse
servire oppure oggetti senza alcun valore o importanza, cose che attiravano la
mia attenzione, cose a cui avrei potuto dare interpretazioni solo mie. Oscure
divinità, potenti feticci, composizioni di materiali inanimati secondo
misteriose connessioni mentali. Portavo tutto dentro la baracca, sistemavo gli
oggetti nei luoghi che ritenevo più opportuni, parlavo con loro, durante le
solitarie notti. Era primavera e non faceva molto freddo, avevo alcune coperte
con cui coprirmi, una stufa a legna davanti la quale riscaldarmi, avevo
costruito un rudimentale letto su cui dormire, con un materasso trovato per
strada. Fuori la baracca c’era un giardino, incolto, trascurato, avevo trovato
dei semi all’interno di un piccolo sacchetto di pelle, dentro un cassetto, in
un comodino mezzo sfondato accanto ad uno dei muri di legno. Avevo scavato
delle buche poco profonde nel terreno e vi avevo messo i semi dentro. Ogni
tanto li innaffiavo. Altre volte ci pensava la pioggia. Sentire i tuoni, sopra
di me, l’elettricità vibrante nell’aria, pioveva in alcune zone della baracca,
c’erano dei secchi per raccogliere l’acqua, poi la riscaldavo sulla stufa e la
usavo per lavarmi, quando ne avevo bisogno. I rumori dei treni che passavano,
così vicini, suoni ipnotici, ripetitivi, modulavano frequenze mentali,
portavano i pensieri verso l’astrazione, le intuizioni in aperture visionarie.
Dal ponte potevo vedere
la mia baracca nascosta dagli alberi, le rotaie, sotto, che brillavano nella
luce, scie bianche, le mie dite attaccate alla rete di protezione, i cartelli
quadrati con l’immagine del teschio, i fili elettrici, passavano vagoni pieni
di macchine, in sequenze ripetute e uguali, diversi colori, identiche forme. Proseguii
lungo la strada, senza carrello, volevo solo camminare, i miei vestiti sporchi,
scivolavo, le persone mi scansavano o ero io a scansare loro? Un uomo seduto
per terra, mormorava sottovoce, da solo, in mano aveva dei fogli, li guardava,
immerso in una folle lettura, passai oltre, la notte precedente aveva piovuto,
i riflessi di luce sull’asfalto ancora bagnato facevano diventare le strade
ricoperte d’oro, ero felice, senza pensieri, il cuore silenzioso, nessun luogo
dove andare, nessun dolore da dimenticare, un passo dopo l’altro, un respiro
dopo l’altro, questo tempo era mio, unico ed infinito.
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