domenica 21 agosto 2016

Penzance #3

Un uomo era seduto su una panchina di legno, accanto ad una targhetta di metallo con il nome di qualcuno ormai morto, occhi spenti e stelle oscurate, l’uomo guardava il mare e aveva delle buste vicino ai piedi e attendeva, come tutti noi, qualcosa che aveva smesso di aspettare e i vecchi alberghi sulla passeggiata, le vetrate da cui si potevano guardare le onde grigie infrangersi contro i muri di pietra, quando l’inverno suonava le sue melodie di malinconica bellezza, il tè e il quaderno sul tavolo e i ricordi che cominciavano a svanire perché la mente cancellava sempre il suo passato e allora qualsiasi cosa poteva essere successa e la vita diventava puro romanzo, splendida finzione, un racconto da cambiare di volta in volta, narrando una storia che non era mai esistita e proprio per questo profondamente umana.
Dietro la porta di una cabina, tre buchi nel legno azzurro all’altezza degli occhi, il cazzo in mano che si gonfiava, i giovani corpi sul bordo della piscina, la pelle bagnata e i sorrisi del sole.

Ogni giorno qualcosa andava perduta e dovevo imparare a non cercarla mai più e le donne dai capelli d’argento e i corpi ormai sfatti danzavano con una grazia sorprendente in un’armonia di movimenti che il tempo non aveva ancora corrotto e un uomo suonava la sua armonica con diabolica maestria e i battiti di una cassa di legno e la gamba di un altro uomo che teneva il ritmo, alzandosi e abbassandosi, con grandi colpi della sua scarpa sul pavimento, i giri del basso a ricordarci perché siamo vivi e la chitarra che graffiava l’anima, perché qualcosa ti entrava nel sangue e pulsava e quando qualcuno ha chiamato il mio nome non mi sono girato, perché non ero più io ma solo un bizzarro capitolo di un libro nero posato sul pavimento di una stanza di polvere e luce soffusa.



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