mercoledì 31 agosto 2016

London #1



Stavo invecchiando e la cosa andava bene così, Londra aveva architetture che proiettavano la mente e i pensieri nel futuro, una piramide di vetro e metallo, di notte, mentre camminavo per strade sconosciute mangiando frutta da una vaschetta trasparente, le luci in alto, le immense vetrate, qualcuno viveva in quegli appartamenti? Potevo arrivarci con immagini di vite inventate, i senzatetto seduti vicino a un muro, le gambe incrociate, il bicchiere di plastica per gli spiccioli, mi sentivo simile a loro, sapevo che se mi fossi veramente lasciato andare sarebbe stato quello il mio destino, avevo paura, avevo ancora tanta paura, di non trovare un posto dove dormire, di non potermi lavare, di girare con i vestiti sporchi, non ce l’avrei fatta, era una forma di annientamento che non sarei riuscito a seguire e la sentivo nel cuore l’ansia di non sapere cosa avrei fatto il giorno dopo, ero stato così tanto tempo richiuso nella gabbia che adesso la libertà mi spaventava e anche la solitudine e i momenti in cui vagavo tra migliaia di volti che non mi riconoscevano e mai mi avrebbero riconosciuto e continuavo a non avere voglia di parlare e c’erano uno sconforto e una desolazione così grandi in questa deriva che mi inquietavano l’anima e poi attimi di assoluta bellezza, la luce che trapassa il cielo grigio in un tramonto improvviso ed è così dolce e delicata mentre mi guarda e io sono appoggiato al parapetto di un ponte e osservo l’acqua e i riflessi e le barche e le mani della gente che si saluta e poi alzo gli occhi e le linee dei palazzi risplendono, così diverse, così intense, in quelle forme che la mente crea negli spazi bianchi che racchiudono ogni creazione. 
Le prospettive cambiavano di strada in strada, gli edifici s’innalzavano e poi si rimpicciolivano, visti da sotto si allungavano come strade di vetro verso il cielo, le immense camere piene di quadri e le pareti rosse e verdi e il senso di stanchezza perenne, questo trascinarsi lungo le ore che non erano più ore e l’alcol che bevevo, ogni giorno, adesso lo capivo il suo aiuto, la sua capacità di rendere malleabile la vita, quando tutto iniziava a sgretolarsi e crollare e le vie incasinate di Camden, piene di ragazzini e negozi stracolmi di merdate e il mercato e l’odore di decine di cibi diversi e poi la sera e le birre e i locali e la musica e centinaia di volti differenti e i frammenti dei discorsi e gli sguardi e le storie immaginate, personaggi viventi che uscivano fuori da qualche allucinazione passata, con i loro costumi e gli occhi, quegli occhi, quando riuscivo a creare un contatto, avrei voluto comunicare così per il resto della mia vita, mi veniva così semplice ed era così profondo quel modo di dirsi tutto senza neanche scambiarsi una parola. Poi l’hashish ad alterare le percezioni e la notte che dimentica come ci siamo perduti al suo interno, i treni che scorrono sotto la terra, i tunnel che creano connessioni tra stazioni di una mappa sconfinata, entriamo e usciamo da questa miriade di possibilità, abbiamo le mani legate, spinti da forze misteriose, alziamo lo sguardo su mattine proibite, il cuore si calma e trova la sua quiete, perché nulla è vero e ogni ombra è solo il ricordo di quello che siamo stati.

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