mercoledì 17 agosto 2016

St. Ives

Le enormi vetrate da cui vedevo il mare e i gabbiani che planavano sulle sue sfumature, disegnate dalla luce, ogni volta che le nuvole si scostavano per lasciarla libera di splendere e i colori e i loro odori e i vestiti sporchi di vernice e le mani e i pennelli e il tuo corpo nudo di ragazza,  davanti a quelle grandi finestre, mentre tracciavo linee su una tela a comporre figure che catturassero la tua essenza e quella dell’oceano.
Le bottiglie di vino e i bicchieri sparsi ovunque, tutti diversi, alcuni riempiti di sabbia, perché non avevo più clessidre che misurassero la mia distanza dalla morte. Il tempo era un unico, ironico inganno, che giocava con i nostri volti. I suoi segni a cui finivamo per credere e dare importanza erano solo le menzogne di un corpo, le sue maschere di gioia e disperazione, il suo modo di esprimere il semplice fatto che nulla era destinato a durare e i tuoi piedi che si posavano sulla sabbia calda, quella che il tempo non avrebbe mai catturato, perché erano luoghi che esistevano solo nella mia immaginazione e la notte prendevo i tuoi alluci nella bocca mentre ti accarezzavo le gambe e sentivo nelle mani ancora i granelli di spiagge lontane e il sapore salato della tua fica quando ti facevi leccare e i tuoi respiri diventavano più profondi e una volta ti ho infilato un pennello nel culo per farti godere e il mattino dopo ero nudo davanti ad uno specchio con il cazzo ancora duro e mi chiedevo se quel riflesso fosse reale o solo un’ennesima fantasia o la semplice purezza di quello che esisteva dall’altra parte di quel vetro, ti ho svegliata e ti ho chiesto di succhiarmelo, la tua bocca era umida e calda e sono venuto come la schiuma che fanno le onde prima di bagnare la terra e perdersi in essa.

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