sabato 16 aprile 2016

homesick #38

Le cose andavano lente, in queste settimane, ci si svegliava, si andava a lavorare, ma lì non c’era nulla da fare, ci avevano murato le classi, con gli operai dell’Est che parlavano, ridevano e martellavano, volti del popolo, ci erano arrivati qui con l’illusione di tutti, un lavoro ben pagato, una vita migliore, erano durate poco le loro fantasie, ben presto gli stipendi erano diminuiti e la vita era diventata uno schifo, come nei loro paesi.

Ci trovavamo una stanza libera, quando c’era, io e l’altro insegnante, ci sedevamo, chiudevamo la porta, poi mi mettevo a leggere un libro, scrivevo e aspettavo. Qualcuno bussava, qualcuno aveva bisogno della stanza, allora ci alzavamo e uscivamo, poi vagavamo per il corridoio e ci trovavamo una sedia, di nuovo il libro in mano, aspettando che le ore di prigionia finissero, alle cinque e mezza eravamo un’altra volta liberi.

Nell’altro ufficio, dove ci dovevamo trasferire, ancora stavano finendo i lavori, ci mancava il riscaldamento, la linea telefonica, i cessi erano otturati e avevano chiamato altri operai a sturarli, tutto era lento, grottesco, irreale.

C’era un piccolo patio, in questo nuovo ufficio, un rettangolo di giardino condominiale, con vasi dove erano infilzati i resti secchi di alcune piante, ci andavamo per i fatti nostri, io e Matteo, quando c’era il sole e gli operai erano impegnati a buttare giù i muri delle classi dove lavoravamo prima, non c’avevamo nulla da fare, tranne che occupare in un modo o nell’altro il tempo e allora ci prendevamo un paio di sedie e ci mettevamo comodi, con gli occhi chiusi, sotto i raggi caldi, era una sensazione piacevole, le giornate erano ancora fredde, quando era nuvoloso e il cielo era coperto, i giorni prima aveva piovuto e per strada ti si gelava il culo, adesso invece la luce c’aveva gli occhi di una ragazza innamorata e dovunque posasse il suo sguardo rendeva le superfici piene di vita, di sogni, di speranze, così non era difficile immaginarsi un’esistenza diversa, in Marocco, in Sud America, nelle campagne inglesi, a Berlino, Amsterdam, Katmandu. Le pareti dei palazzi erano giallo ocra e il cielo blu cobalto e visti insieme creavano un contrasto meraviglioso, ci si sentiva liberi e mi tornavano dentro alcune sensazioni di quando ero bambino, le mattine di sole con mia nonna in campagna, d’estate, la luce mi sembrava identica, la calma che respiravo anche.

Ogni tanto c’avevo da discutere con Maria, le questioni erano le solite, a volte mi sentivo stanco, non avevo la forza di risponderle, mi dispiaceva farla stare male, non soddisfarla come sarebbe stato giusto fare, ma c’erano cose che avevo perso o che semplicemente non mi interessavano più, speravo che lei mi capisse, che ritrovasse la sua gioia, il suo splendore, senza che questo dipendesse da me, certe volte avevo invece l’impressione che le servissero le litigate, le incomprensioni, che la facessero sentire più viva, non ero mai stato molto bravo in questo tipo di cose, tendevo a nascondermi, a rintanarmi, non mi piacevano i conflitti ma bisognava pure combatterla questa lotta senza tirarsi indietro, era il sangue che scorreva e mica lo si poteva fermare, l’importante era rimanere consapevoli e accettare quello che veniva, la vita avrebbe fatto il resto.

Giorni di attesa, le gemme lo facevano sugli alberi, pronte a schiudersi, mi piaceva quel sole, la mattina, seduto su una sedia nel patio, con gli occhi chiusi tutto mi sembrava di nuovo possibile.


Nessun commento:

Posta un commento

freewheelin' #82

  Le notti diventavano più brevi e il sonno si popolava di sogni e fra le loro storie c’eri anche tu, il tuo volto e il tuo corpo ma non i t...