sabato 23 aprile 2016

homesick #41

Nelle distanze tra me e gli altri si creavano spazi in cui era possibile reinventarsi la vita, sentire il flusso nitido e palpitante delle proprie emozioni, il mischiarsi della gioia e della tristezza, potevi vedere con gli occhi di persone lontane, potevi sentire le loro voci nel tuo cuore,  nei pensieri, potevi abbracciare corpi invisibili nel crepuscolo eppure così reali dentro i respiri, osservare i sentimenti, guardarli crescere come fiori meravigliosi, ogni fiore un nome, ogni nome un suo frammento di luce. 

Dolce era lo sguardo di Shadat, mentre parlavamo, sotto l’ombrellone, in una spiaggia che si allungava dalle torri di un castello, i corpi stesi, i rumori lontani, i colori scintillanti, gli echi dei gabbiani, gli oggetti tremolavano nel riverbero dell’estate e non so quanti chilometri si era già fatto quel giorno, solo per vendere qualche birra, gli spostamenti da una parte all’altra, lo zaino pesante pieno di lattine e bottiglie, una borsa per il ghiaccio trascinata sotto il sole, la miseria era così sadicamente ironica, gli ho detto di risposarsi, di mettersi un po’ all’ombra, gli ho comprato qualche birra, le ho pagate più del necessario, lo volevo aiutare, li avrei voluti aiutare tutti, era impossibile, abbiamo continuato a parlare, i suoi occhi erano dolci e tristi, l’ho visto allontanarsi, sotto il peso del nostro egoismo, fra corpi supini e indifferenti ai battiti del suo cuore, ad ogni croce un cristo, ad ogni cristo un nome e una storia diversa, che nessuno, tra quella moltitudine di sabbia, avrebbe mai ascoltato. 


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