Nuvole
veloci nel cielo, striature rossastre nei filamenti di aria appesi agli alberi,
le foglie immobili, sospese nel vuoto azzurrino, colori d’acqua, immagini del
porto, i suoi vicoli, le stradine con i ciottoli di pietra irregolari, la merda
ancora fumante dei cavalli, i gabbiani che camminano lenti tra i rifiuti e i
fiori, i lunghi capelli di una ragazza riflessi in uno specchio, il percorso
era sempre lo stesso e cambiava solo a seconda delle mie intuizioni mentali e
sensoriali, un odore, un ricordo, un fermoimmagine, ogni stimolo, se elaborato,
poteva mutare la realtà, renderla possibile davanti ai miei occhi - avevo
trovato una chiave, era un cerchio di metallo, forse di bronzo, antico e
sporco, passato attraverso molte mani, il cerchio era saldato ad una specie di
vite, lunga un centimetro, bisognava trovare le porte giuste, inserire la vite
in un buco e girare, la porta si sarebbe aperta, erano passaggi speciali, ce ne
era uno nel palazzo dove vivevo, accanto alle scale, sembrava una porta
normale, come tante altre, ma non lo era. Tenevo la chiavecerchio in una
scatola, sul mio comodino, accanto alla statua in legno di una divinità
indiana, me ne sono servito questa mattina, per arrivare al porto, per
assaporare l’aria del mare, per rimanere a guardare il cielo d’inverno e le sue
sfumature, sulla sabbia c’erano disegni primitivi e geometrici, linee e curve
che si sovrapponevano, forse un alfabeto dimenticato - di nuovo in terrazzo, lo
stesso cielo, gli edifici intorno oscillavano nel vento purpureo, come visti
attraverso una superficie di acqua, c’erano antenne sui palazzi che si
piegavano, totem pagani che riprendevano le stesse linee e curve che avevo
visto sulla spiaggia, messaggi psichici, rumore bianco, interferenze, le parole
modulate in significati sconosciuti, emittente/ricevente, bisognava inventare
nuovi modi di comunicazione, volti deformi strisciavano per strada, dall’alto
le prospettive cambiavano in continuazione, i canti mattutini risplendevano
d’argento dalle alte torri, uomini inginocchiati toccavano con la loro fronte
superfici di marmo fredde e bianche.
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