giovedì 21 aprile 2016

homesick #40

Le chiome degli alberi diventavano giorno dopo giorno più folte ed erano belle da guardare, alte, rigogliose, di un verde brillante nelle giornate di luce, erano strani esseri gli alberi, con la linfa che gli scorreva dentro, così nudi, spogli, durante l’inverno, poi la vita tornava a risplendere in tutta la sua bellezza, c’era molto da imparare da loro e io aspettavo il tram sotto quei rami, giorno dopo giorno, mutando impercettibilmente anche io, perdendo e guadagnando qualcosa - i pensieri e le emozioni potevano essere seminati, mettere radici, crescere, inaridire e morire, c’erano boschi interi di pensieri in cui ripararsi, al sicuro, in cui sedere quieti, a meditare, ce ne erano altri secchi, deformi, da bruciare, da cui liberarsi, un immenso incendio di idee sbagliate, confuse, un rogo scintillante di purificazione, bisognava stare attenti a chi ti girava intorno, alle parole che ascoltavi, non si poteva mai sapere quale sarebbe stato l’effetto di un discorso, bisognava andarci cauti, bisognava limitare quello che gli altri avevano da dirci, il silenzio era sempre accogliente, soprattutto il mio, ci stavo bene dentro, come sotto una coperta calda in un giorno invernale di pioggia. 

La sentivo la primavera, negli odori e nell’allergia che mi pizzicava il naso, la vedevo nei colori più brillanti, stava tornando e poi sarebbe passata. 

Le stanze dell’ufficio erano tranquille, leggevo, insegnavo, scrivevo, mi ero ripreso la mia solitudine, buttando fuori a calci nel culo tutti quelli che la disturbavano, ogni tanto uscivo nel patio, prendevo un po’ di sole, guardavo il cielo lucente, ponevo fine ai pensieri, altre volte immaginavo, gli incontri, i viaggi, le destinazioni. Il soffitto dell’ufficio era di legno, con travi che lo sostenevano, dentro una di esse ci doveva stare un formicaio o qualcosa del genere, ‘sti minuscoli insetti lavoravano come dannati, molto più di noi, che sotto, facevamo i nostri piccoli spettacolini quotidiani, loro si muovevano in fila, diligenti, ordinati, scavavano dentro il legno e poi, ogni tanto, si vedevano cadere, in controluce, microscopici vortici di segatura che andavano a posarsi sul lettino nella stanza del dottore e se non lo pulivano, dopo tre o quattro giorni, si creavano strane composizioni geometriche, curiosi disegni primitivi, nessuno sembrava preoccuparsene, io meno di tutti, mi piaceva guardarle, qualche volta, perché non si sapeva mai dove avremmo potuto imparare qualcosa.


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