sabato 2 luglio 2016

homesick #50

Era un linguaggio fatto di bacini, bacetti e bacioni, quello che dovevo ascoltare ogni giorno, quando le colleghe erano nelle stanze altrimenti calme e silenziose, si mettevano al telefono e parlavano, casi fragili, vulnerabilità, progettualità e tutta una serie di sigle e abbreviazioni di cui non coglievo il significato, un mondo di parole inutili costruito su misura per un lavoro che si sarebbe potuto svolgere in dieci minuti, ma bisognava starci ore in ufficio e in un qualche modo il tempo si doveva farlo passare e allora fiumi di discorsi che non portavano da nessuna parte, che scorrevano rumorosi e fastidiosi, con le voci che si alzavano e si sovrapponevano in un flusso di suoni ridicoli, una cascata di chiacchiere femminili che, quando si allontanavano dai temi dell’ufficio per inoltrarsi in territori a loro molto più familiari, cioè i capelli, i fidanzati e  la maternità, diventavano semplicemente insopportabili.

Eppure, pensavo, questa frenetica attività orale doveva andare a riempire qualche vuoto, a colmare con l’illusione del linguaggio delle mancanze molto più profonde, ci si ingannava a vicenda, era una lotta tra loro, anche se velata, c’era una competizione in ogni cosa, se poi c’erano presenze maschili la guerra era aperta.

Mi limitavo al buongiorno/buonasera e a fare lo stretto necessario che il mio ruolo richiedeva. Salutavo con una stretta di mano, se proprio dovevo farlo. Avevo finalmente una stanza tutta per me, quello che c’era fuori dalle pareti gialle era solo un insieme di parole senza alcun significato, un’altra lingua parlata da persone con cui non volevo condividere più nulla.


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